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#21 del 04-09-2002

TXT: Cembro  

theFLOW​​​​Cos’è la felicità? Cos’è che induce in noi quella sensazione palesemente positiva di soddisfazione e autocompiacimento? A quali compromessi siamo disposti a scendere per attingere alla nostra fonte personale di appagamento dell’anima? Ad uno che non esita a lanciarsi giù da undici gradini in pop shovit e non teme di piegarsi la caviglia all’atterraggio mi sembra abbastanza inutile chederlo. Anche a uno che sta imparando kickflip in flat è inutile chiederlo.

Psicologo, esperto di creatività e di pensiero postivo, si è fatto invece queste domande Mihaly Csikszentmihalyi, o meglio, le ha fatte a una grossa quantità di persone che spiccavano tra gli altri per il loro operato nel campo delle arti, dello sport, della scienza e altre attività in cui le doti umane vengono messe in pratica.

La sua idea di partenza è che la creatività è quell’attività umana che rende la vita degna di essere vissuta. Il suo intento era di trovare un comune denominatore alla base delle esperienze di queste persone. Quello che scoprì divenne il fondamento di tutti i suoi studi successivi sull’esperienza creativa umana: era nata la teoria del “FLOW”.

Tutti gli intervistati diedero testimonianza di momenti particolari in cui mentre svolgevano la loro attività si estraniavano dall’ambiente circostante, non si accorgevano dello scorrere del tempo, dimenticavano gli impegni e i problemi della giornata, non erano più coscienti della loro stessa coscienza. Facevano quello che volevano fare e basta. Ma, soprattutto, godevano a farlo. Queste persone avevano raggiunto una specie di stato di “trance”, tanto intente e impegnate erano in quello che facevano. “…. era come essere trascinati da una corrente, tutto si muoveva e cambiava senza apparente sforzo…”. Da qui il nome flow, che tradotto significa “flusso”. Di idee, di azioni, di parole, di sensazioni, di pensieri, di scoperte. Di qualunque cosa produca questo stato paradisiaco dell’essere.

Il giocatore brasiliano Pelè ha descritto giorni in cui ogni cosa andava per il verso giusto, e sentiva “uno trano senso di rilassatezza che non avevo provato in nessun’altra partita. Era una
specie di euforia, sentivo che avrei potuto correre tutto il giorno senza stancarmi, che avrei potuto dribblare chiunque, che avrei potuto quasi correre attraverso i miei avversari.”

A questo punto spero vi si sia accesa una lampadina nella testolina e abbiate riconosciuto quella certa sensazione di cui parlavo poco fa: ebbene sì, è successo anche a voi, l’avete sperimentato e ne siete rimasti estasiati. Magari vi è successo proprio ieri durante una sessione al vostro skatepark locale. Avete iniziato a skateare senza pretese, in tranquillità, poi pian piano la session si è infuocata, avete iniziato a dimenticare tutto quello che vi stava intorno, colui che comandava era il vostro istinto, e quello che vi veniva di fare lo facevate. Non a caso il termine flow è già usato da lungo tempo nel mondo dello skateboarding, per descrivere un particolare modo di skateare che lascia spazio all’immaginazione, all’improvvisazione e alla creatività, oltre che ad una buona dose di tecnica (spesso sono coinvolti spots come le bowls – Marsiglia, il vecchio Turf Skatepark - dove si mette a dura prova l’abilità dello skater e la sua capacità di adattamento improvviso al percorso). Qui mi viene in mente una session che Rick McCranck fece a Munster nel 1997: partì con un nosegrind sul passamano dal vert al bank e continuò con una session talmente lunga, tecnica e improvvisata che tutti gli altri skaters si fermarono e rimase lui, solo in mezzo allo skatepark ad infilare un trick dopo l’altro, con noi sulle tribune testimoni in delirio di questa tremenda quanto improvvisa espressione di flow.

Csikszentmihalyi ha scritto vari libri, tra cui Flow: the experience of the optimal experience e “Flow in sports”, in cui tratta di questo fenomeno ricorrente tra gli atleti di tutto il mondo (il concetto di flow è infatti applicabile a qualunque attività umana, dallo sport, a far decollare un 747 a srotolare un rotolo di carta igienica…). Tra le sue teorie indica alcuni tratti evidenti di questo particolare stato mentale:

- un senso di giocosità
- una sensazione di avere il controllo
- concentrazione e attenzione ai massimi livelli
- godimento mentale col solo svolgersi dell’attività
- un senso distorto del tempo
- una sfida tra quello che si sta per fare e le proprie capacità

Alcune tecniche orientali di combattimento come il Karate e il Kendo basano la loro disciplina su elementi piuttosto simili a quelli evidenziati sopra. Sono infatti evitati, come base di una corretta esecuzione:

- il desiderio di vittoria
- il desiderio di mostrare le proprie abilità
- il voler spaventare l’avversario
- il desiderio di essere reattivi invece di prendere l’iniziativa
- il voler a tutti i costi raggiungere il corretto stato mentale (processo che porta inevitabilmente a distrarre il combattente stesso)

Qui potete leggervi (solo inglese, sorry) l’introduzione ad un libro chiamato “The art & Science of Flow” di Robert Frick, in cui narra un simpatico racconto di un allievo che voleva imparare il Buddismo Zen. Arrivato in Giappone, gli fu presentato un maestro Zen, che era anche un maestro nell’arte dell’arco. Questo, per i successivi cinque anni, istruì il suo allievo a tirare con l’arco, invece che istruirlo sulle discipline che gli interessavano. Ma l’insegnamento non fu come il novizio se lo aspettava: il maestro non gli insegnò nessuna tecnica, nessun metodo particolare per migliorare i suoi tiri. Gli disse solo di guardare lui che tirava e poi provare da solo, basando i suoi sforzi su di un misterioso “qualcosa” che doveva sentire dall’interno: se il tiro era stato prodotto da questa forza allora era un tiro valido, anche se non aveva nemmeno colpito il bersaglio; se invece il tiro era partito senza l’input di questa forza allora non era un tiro buono, nemmeno se aveva centrato in pieno il bersaglio.

Benchè il metodo usato qui possa apparire un po’ strano, Frick spiega che questo misterioso qualcosa proviene dalla mente non conscia, quella che corrisponde alla parte destra del cervello. Questa si occupa di immagazzinare input, fare libere associazioni e produrre conclusioni
creative. Riguardo a questo potete leggervi ”Disegnare con la parte destra del cervello” di Betty Edwards.

Le funzioni della parte destra del cervello sono:

Non-verbali: consapevolezza delle cose senza il minimo ricorso alle parole.
Sintetiche: unione degli elementi di una situazione a formare un tutto.
Concrete: considerazione delle cose così come sono al momento presente.
Analogiche: percezione delle somiglianze tra oggetti; comprensione dei rapporti basati sulla metafora.
Atemporali: mancanza del senso del tempo.
Non razionali: mancanza della necessità di premesse e fatti; disponibilità a sospendere il giudizio.
Spaziali: osservazione della collocazione degli oggetti rispetto ad altri oggetti, e delle parti rispetto all'intero.
Intuitive: momenti illuminanti, di improvvisa comprensione delle cose, spesso in base a schemi incompleti, impressioni, sensazioni o immagini visive.
Globali: visione contemporanea di tutti gli aspetti di un oggetto o fatto, percezione di schemi o strutture al completo, spesso orientate verso conclusioni divergenti.

”Si è potuto rilevare che, tra i due emisferi, quello che tende a predominare è l'emisfero sinistro. Ciò è anche dovuto al fatto che la nostra cultura valorizza in particolar modo le caratteristiche di quest'ultimo, a discapito di quelle "destre" Le funzioni dell'emisfero destro sono: funzioni intuitive, soggettive, relazionali, globali, libere dal concetto di tempo. Questi sono aspetti poco apprezzati dalla nostra cultura, e vengono associati alla mano sinistra e al concetto di debolezza. Basti pensare a come il sistema educativo, nei nostri paesi, sia tutto impostato sullo sviluppo dell'emisfero verbale, razionale e temporale, a quasi totale discapito dell'emisfero cerebrale destro.”

E’ quindi anche “colpa” dell’ambiente in cui siamo nati il fatto che non facciamo caso a queste cose, non le percepiamo come plausibili e le battezziamo come inattendibili. Personalmente ho iniziato ad interessarmi a queste cose quando ho avuto l’impressione che questi attimi di “chiarezza interiore” fossero ricorrenti in determinati momenti della mia vita, come se ci fossero cause precise che li facevano nascere ed accadere: la sorpresa è infatti stata non poca quando sono venuto a conoscenza di queste teorie che spiegavano perfettamente i meccanismi che regolavano questi stati d’animo!! Non posso garantire che tutte queste teorie siano vere, ma spero che a qualcuno abbiano fatto scattare una scintilla e gli possano servire in qualche modo a sviluppare quell’enorme potenziale mentale che tutti abbiamo ma che non sappiamo di poter svegliare in qualunque momento della nostra vita. Scrivetemi se vi va. Commentate nel forum se la cosa vi coinvolge.

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